La  memoria di Donato Jaja si è affidata, come è noto, soprattutto all’esser stato  il maestro, anzi un «secondo padre», di Giovanni Gentile. Così è stato lungo il  Novecento, da Il secolo XX (1942) di Michele Federico Sciacca alla Storia della filosofia (1999) di  Paolo Rossi e Carlo Augusto Viano attraverso la Storia della filosofia di Eugenio  Garin. Era il risultato paradossale di quella effimera luce che l’allievo aveva  di riflesso proiettato sul filosofo di Conversano, garantendogli sì la  fuoriuscita dall’oblio, ma anche legandolo fatalmente agli incunaboli e ai  precursori dell’attualismo.
Per  ritrovare Jaja nel suo tempo e nei suoi problemi bisognava cercarlo laddove storicamente  si era collocato: alla conclusione delle vicende dell’hegelismo meridionale da  Vera a Spaventa, «tardo epigono» – eppure forse una «delle sole voci  autenticamente filosofiche del periodo» – come ebbe a definirlo nel 1973 Guido  Oldrini in quel grande affresco de La  cultura filosofica napoletana dell’Ottocento.  Una definizione che sarebbe divenuta anni dopo un vero e proprio capitolo nella Napoli e i suoi filosofi (1990) dello studioso milanese.