Il codice di procedura civile contempla due modelli di arbitrato per la risoluzione delle controversie che non vertono su diritti indisponibili: l’arbitrato rituale, attratto nell’orbita della giurisdizione concludendosi con un atto al quale l’ordinamento riconosce efficacia equiparabile a quella della sentenza, e l’arbitrato irrituale, radicato nel campo dell’autonomia privata definendosi con una determinazione contrattuale, pur se caratterizzato da una sequenza spiccatamente procedimentale e da un regime impugnatorio. La tipizzazione dell’arbitrato irrituale nel Titolo VIII del Libro IV del codice di rito, voluta dal legislatore del 2006 (d.lgs. n. 40), risponde a due fondamentali ragioni: la prima riguarda il riconoscimento dell’autonomia privata, sia pure entro i precisi limiti delle garanzie del giusto processo, segno della necessità dello Stato di “appropriarsi” anche dell’arbitrato irrituale, fenomeno inventato dalla giurisprudenza nel 1904 e mai abbandonato nella realtà applicativa; la seconda ragione sta nel tentativo di allineare l’arbitrato irrituale di diritto comune a quello di diritto speciale per le controversie di lavoro, disciplinato sin dal secolo scorso.
Negli ultimi anni si sono succeduti molteplici interventi legislativi, sino alla recentissima l. 26 novembre 2021, n. 206 che, pur non occupandosi direttamente dell’arbitrato irrituale, mira a ridurne gli spazi introducendo significativi incentivi in favore dell’arbitrato rituale, della mediazione e della negoziazione assistita. L’opera esamina in chiave ricostruttiva le peculiarità dell’arbitrato irrituale, interrogandosi sulle ragioni della non sempre sua corretta applicazione, e mette in luce il rilevante contributo che l’arbitrato irrituale può offrire nello scacchiere della giustizia, anche alla luce degli obiettivi dell’Agenda Onu 2030 (goal 16).